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CHE COS’E’ UN IPERTESTO di Giacomo Rota
Linearità e non linearità La lettura di un
testo tradizionale avviene, normalmente, in maniera lineare. In altre
parole il testo tradizionale prevede che il lettore, legga le varie parti
nell’esatta successione in cui esse vengono presentate dall’autore. Il
romanzo o la poesia sono testi tipicamente lineari.
Proviamo a dare una definizione d'ipertesto, d'altra parte la filosofia nasce come ricerca della giusta definizione: cos'è la virtù? cos'è il coraggio? cos'è l'ipertesto? «Con ipertesto intendo scrittura non sequenziale, testo che si dirama e consente al lettore di scegliere; qualcosa che si fruisce al meglio davanti a uno schermo interattivo. Così come è comunemente inteso, un ipertesto è una serie di brani di testo tra cui sono definiti legami che consentono al lettore differenti cammini. [...] L’ipertesto include come caso particolare la scrittura sequenziale, ed è quindi la forma più generale di scrittura». [Nelson (1990), pag. 0/2]. Theodor Holm Nelson, il primo a utilizzare all'inizio degli anni '60 il termine hypertext, ci dice che l'ipertesto è da intendere come «scrittura non sequenziale». L'ipertesto è dunque un tipo di scrittura (e quindi di tecnica, di pratica) che possiede una peculiarità, quella di essere non sequenziale. Questo fa pensare che esista una scrittura abituale che è sequenziale, poi c'è l'ipertesto che non lo è. L’ipertesto come monstrum, come eccezione della scrittura. Subito dopo, però, Nelson fa sapere che, in realtà, anche chi scrive sequenzialmente, pur non sapendolo, frequenta un caso particolare d'ipertesto. Affermazione gravida della conseguenza che esista una «struttura di ciò di cui scriviamo» [Nelson (1990), pag. 0/3], che la scrittura debba rappresentare tale struttura e che possa riuscirvi meglio se liberata dalla sequenzialità. Ma che cos'è la sequenzialità della scrittura di cui stiamo parlando? La sequenzialità è un concetto cronologico istituito dalla pratica alfabetica. Nelle altre scritture non esiste sequenzialità intesa come infinita linea scrittoria del prima e del dopo, ma un tracciare che è un riempire la superficie spazialmente: un "cartografare" il foglio, la parete, la pergamena. La sequenzialità alfabetica verrà affrontata nel prosieguo dell’opera, poiché non è a essa che Nelson si riferisce (anche se un concetto di sequenzialità può apparire solo dopo la pratica d’iscrizione alfabetica, come d’altra parte ogni concetto in quanto prodotto metafisico). Egli scrive, riguardo alla struttura ipertestuale: «serie di brani di testo tra cui sono definiti legami che consentono al lettore differenti cammini». Forse avrebbe fatto meglio a dire insieme di brani, poiché nella serie, un concetto di sequenzialità è già implicito. A ogni modo, l'autore vuole dire che ciascun brano non rimanda semplicemente a uno successivo: il capitolo 1, poi il capitolo 2, e se salto subito al nono e non capisco niente, non posso lamentarmi, dovevo leggere prima gli altri otto. Anche se spesso nei libri si dice: «come si vedrà più avanti», oppure: «come descritto in precedenza», creando un insieme di rinvii all'interno del volume stesso, a volte rimandando ad altri testi. Allora l'ipertesto non è poi una grande novità. Dicendo ciò diremmo una cosa vera, perché l'ipertesto può nascere solo dopo una serie di pratiche, di tecnologie intellettuali che vengono analizzate nella genealogia; ma intenderemmo anche: «la scrittura è ipertestuale da sempre, solo che prima non se ne accorgevano». Perché non se ne accorgevano? Perché l'ipertesto «si fruisce al meglio davanti a uno schermo interattivo». È davvero così: l'ipertesto è sempre stato possibile nella storia della scrittura, ma si è attualizzato grazie ai computer? Prima di rispondere dobbiamo conoscere meglio l’ipertesto. Fenomenologia dell'ipertesto
Prima d'iniziare a praticare l'ipertesto, i già esperti dicono navigare oppure utilizzano il verbo inglese to browse (leggere senza ordine, cercare a caso, ma anche dare uno sguardo), orientiamoci con alcune frasi tratte da Le tecnologie dell'intelligenza di Pierre Lévy [Lévy (1990) ]: «Tecnicamente, un ipertesto è un insieme di nodi connessi da dei legami. [...] Navigare in un ipertesto, dunque è disegnare un percorso in una rete che può essere complessa quanto si vuole. [pag. 40] L'ipertesto riprende e trasforma delle vecchie interfacce della scrittura. [pag. 41] É in questa nicchia ecologica dell'informatica conviviale che l'ipertesto ha potuto essere elaborato dapprima, ed in seguito diffondersi. [pag. 43] L'ipertesto costituisce dunque una rete d'interfacce originale a partire da tratti presi in prestito a diversi altri media. [...] La quasi istantaneità del passaggio da un nodo all'altro permette di generalizzare e di utilizzare in tutta la sua estensione il principio di non-linearità. [pag. 44]» Queste poche frasi di Lévy offrono un importante termine di paragone per i risultati che acquisirà l'analisi fenomenologica seguente. L'autore francese ci dice che l'ipertesto è una rete di significati e di interfacce reso possibile dalla quasi istantaneità di passaggio da un nodo all’altro e che la sua apparizione si è avuta grazie allo sviluppo di una particolare tecnologia: l’informatica conviviale. Teniamolo presente e andiamo alle navi.
Salpiamo. Ma in quali mari si trovano gli ipertesti? Le due principali forme di fruizione d'ipertesti sono attualmente i CD-ROM e le reti informatiche (Internet, World Wide Web, etc.); come diceva Nelson: «Qualcosa che si fruisce al meglio davanti a uno schermo interattivo» [(1990), pag. 0/2].(1)
Gli ipertesti su CD-ROM (disco compatto numerico: una memoria di buona
capacità e di facile uso e trasporto) hanno iniziato la loro diffusione sul
finire degli anni Ottanta. Solitamente sono edizioni di opere a carattere
enciclopedico. Il supporto Nell’atto di scrittura «il foglio bianco è un supporto materiale che però non vale per la sua materialità», per poter assolvere alla sua funzione di raffigurare «esso deve annullarsi per esibire "la raffigurabilità pura"». Il foglio esibisce il luogo di raffigurazione che non può essere raffigurato. «Il foglio bianco è un nulla, un’assenza, una potenzialità (di infinite
raffigurazioni), è un bilico (cioè una soglia, in quanto il luogo di
raffigurazione non c’è senza supporto materiale)». Esibendo «sensibilmente
i "caratteri di nulla": il foglio è l’analogon materiale di questo
nulla». Esso si mostra bianco e sottile e quindi trapassabile, disponibile ad
accogliere. Ciò nonostante il luogo di raffigurazione «è semplicemente alluso
dal bianco del foglio» poiché esso «può essere supportato da tutto senza che
però si identifichi con nulla». Il foglio stampato, la stele ideografata, la parete pittografata, lo schermo elettronico in quanto cartigli devono avere qualcosa in comune che li fa essere tali e nel contempo ognuno assolve al suo compito di cartiglio secondo peculiarità proprie. Cos’hanno in comune il foglio bianco e lo schermo elettronico? e cos’hanno di differente? Lo schermo interattivo (vedi i princìpi dell’interazione conviviale) presenta anch’esso caratteristiche funzionali simili al foglio bianco. Entrambi si offrono come superficie ed entrambi nel loro raffigurare tendono ad annullare la loro materialità: davanti al monitor raramente ci ricordiamo dell’appendice rappresentata dal tubo catodico, dai cavi d’alimentazione e dalla connessione con l’elaboratore, ce ne ricordiamo solo quando dobbiamo spostarlo o qualcosa non funziona. Se dal punto di vista fisico le differenze sono evidenti e a favore del più maneggevole foglio, per quanto riguarda l’essere supporti della prassi scrittoria quali sono le peculiarità? Lo schermo interattivo ha dei vantaggi che compensano la sua pesantezza fisica? Nel foglio l’azione di scrittura-conservazione-lettura avviene sul medesimo supporto fisico. Agisco su di un foglio con la mia biro, poi lo ripongo in un cassetto e domani se voglio leggerlo lo riprendo in mano. Quando scrivo al computer, l’impressione è quella di scrivere sul video. In realtà io digito su di una tastiera che non si modifica per la mia azione, anche se scrivo l’Odissea alla fine la tastiera resta uguale a quando ho iniziato, essa infatti invia degli impulsi che modificano gli stati dei semiconduttori interni alla "scatola" del computer. È la memoria temporanea o permanente del computer a variare, poi avviene che il microprocessore modifichi gli stati dei pixel dello schermo. Tastiera, memoria e video rendono rispettivamente possibili la scrittura, la conservazione e la lettura. Queste funzioni, che il foglio assolve insieme, ora possono essere separate: io posso scrivere con la tastiera di casa mia sulla memoria di un computer che si trova a Torino e visualizzarne il testo a Como (l’opera di retroazione di guardare cosa scriviamo fa si che tastiera e video siano sempre presenti contemporaneamente, ma in linea di principio questo non è necessario). Inoltre mentre un foglio, per quanto grande sia, si "consuma", nel senso che può essere supporto per un numero limitato di grafi, il video invece contiene potenzialmente infiniti fogli. Anche il foglio bianco è potenzialmente infiniti fogli. Ma una volta che è stato realizzato secondo una delle sue possibilità, una volta che è stato inciso e quindi de-ciso, riduce le sue potenzialità e, se trattiamo la cosa in termini di progetto e interpretazione, possiamo dire che attualizzandosi in un determinato foglio scritto, esso riduce la sua virtualità, la sua apertura a. Non così invece lo schermo che può sempre essere ri-deciso, ri-scritto; in cui posso aprire infinite finestre di scrittura(3). Se traccio una linea su di un foglio bianco in qualche modo compio una decisione irreversibile, instauro una storia del foglio: scripta manent (se la linea è a matita posso cancellarla ma difficilmente il foglio ritornerà com’era all’origine), ma ogni volta che spengo lo schermo questi ritorna nero esattamente com’era prima che lo utilizzassi, ciò che è stato modificato è la memoria del computer, ma anche questa, volendo, può ritornare esattamente com’era all’inizio: si può sempre formattarla. Mi permetto una piccola disgressione per analizzare la differenza linguistica per cui il foglio vuoto è per antonomasia quello bianco mentre lo schermo vuoto è per eccellenza quello spento, quello nero. Questa differente definizione cromatica credo abbia un suo valore ermeneutico: il bianco, colore virginale, ha in sé tutti i colori, il deciderlo è quindi una sottrazione; il nero, colore funebre, è l’assenza di colore, l’inciderlo è un fare apparire dal nulla, e mentre la verginità non torna più, il nulla e la morte ritornano sempre. Alla fine di questo confronto tra foglio e schermo possiamo dire che il secondo è una virtualizzazione del primo in quanto problematizza, evidenziandolo, l’emergere dal nulla della traccia che è all’opera in ogni pratica di scrittura. Quella sullo schermo è una scrittura virtuale poiché la scrittura avviene sulla memoria fisica come sequenza di bit, mentre quella che vediamo è solo una sua possibile interpretazione, ed essendo già la scrittura una pratica virtualizzante, la scrittura su video è quindi virtualizzazione del virtuale(4). Perciò riesce a evidenziare il nulla della raffigurazione: ogni incisione dello schermo attualizza un’infinità di rappresentazioni, ma è un’attualizzazione temporanea la cui differenza dalle altre è "nulla". L’oggetto Per la nostra navigazione prendiamo l'esempio del programma immaginario Cicero formulato da Pierre Lévy in Le tecnologie dell'intelligenza [(1990) , pag. 38-39]. Cicero è un'opera enciclopedica sulla storia, la società, l'arte, la cultura, la tecnica degli antichi romani. Inizialmente si presenta disponendo sul nostro schermo una serie di icone. Esse rappresentano le modalità di esplorazione dell'opera: possiamo fare una consultazione cronologica dei periodi, oppure biografica dei suoi personaggi, o "sfogliare" i documenti lasciati dalla civiltà romana, o far cercare tutti i documenti in cui è citato un certo nome, o infine, come la studentessa dell'esempio di Lévy, seguire la visita guidata. L'ipertesto è allora solo un raccoglitore di dati, una grande biblioteca digitalizzata che può essere tenuta in tasca? Una risposta banale potrebbe essere: «No, perché quando scelgo di visitare il teatro di Marcello, ho la mia guida virtuale che mi parla delle differenze tra l'architettura romana e quella greca, mentre sul video scorrono le immagini girate all'interno dell'edificio e dagli altoparlanti la voce di un grande attore drammatico interpreta una commedia di Plauto». A cui seguirebbe la domanda tecnica: «Ma allora bisognerebbe chiamarlo ipermedia o multimedia interattivo?» Se imbocchiamo questa strada non raggiungeremo mai l'obiettivo di analisi filosofica che ci siamo prefissi. Questa deviazione potrebbe però rivelarsi non del tutto infruttuosa. Proviamo a rispondere al perché ipertesto e non ipermedia. Lévy dà questa spiegazione: «Si sceglie qui il termine ipertesto, beninteso che questo non esclude affatto la dimensione audiovisuale. Entrando in uno spazio interattivo e reticolare di manipolazione, di associazione e di lettura, l'immagine ed il suono acquisiscono quasi uno statuto di testo.» [Lévy (1990), pag. 40]. Questa frase è illuminante, forse troppo in questo momento. Innanzitutto ci dice che l'ipertesto non è, a differenza di altre tecnologie informatiche come la computer graphic o la realtà virtuale(5), solamente una tecnica di riproduzione del reale o del più vero del reale(6) ma si caratterizza come testo, come operazione di scrittura e lettura, e anche come textum (tessuto), come intreccio di fili, di associazioni. L'ipertesto, quindi, utilizza caratteri iconici all'interno di una struttura testuale, articolata. D’altra parte, Landow (1992) sottolinea come esista nella nostra civiltà dominata dalla stampa un problema terminologico rispetto al significato da associare al termine "testo" nei sistemi ipertestuali. E questo sotto due aspetti: in primo luogo il testo non è solo composto di parole; in secondo luogo il testo virtuale che compone un ipertesto non ha propriamente un "esterno" al testo e un "interno" al testo come lo ha intuitivamente un’opera o un documento cartaceo: files differenti e magari localizzati su hardware fisicamente distante mi appaiono sempre sul medesimo schermo. Cosa comportino queste caratteristiche sarà compito della Logica
dell'ipertesto comprenderlo. Ecco allora l’obiettivo dell'ipertesto, come dice Nelson, «creare nuove forme di scrittura che riflettano la struttura di ciò di cui scriviamo» [Nelson (1990), pag. 0/3], ma cos'è ciò di cui scriviamo? Una prima risposta che il senso comune potrebbe dare è: noi scriviamo di cose che accadono nel mondo. Ma subito sorgerebbe l'obiezione che si possono scrivere anche cose che non sono mai accadute (un uomo cammina sulla superficie solare) o che riteniamo impossibile accadano (mettendo insieme le tue due mele e le mie due, abbiamo cinque mele). Allora potremmo dire che quando scriviamo descriviamo "stati di cose", come direbbe Wittgenstein, se poi questi "stati di cose" siano veri o falsi è un altro discorso. Lo stato di cose "il bambino gioca a pallone" può essere scritto in diverse forme: possiamo farne un disegno, scriverlo alfabeticamente come ho appena fatto, o definirlo come una successione binaria di un particolare codice, giusto per fare degli esempi. Anche se, noi uomini alfabetizzati, quando diciamo scrivi "il bambino gioca a pallone" intendiamo scrivi le parole che pronuncerò, scrivi la mia voce. Ma se io posso pronunciare, scrivere, disegnare, codificare uno stato di cose è perché esso deve avere qualcosa di simile con tutte queste manifestazioni espressive. Cos'è questo qualcosa? Noi diciamo che il disegno, la parola, lo stato di cose (anche le cose, attenzione, sono una scrittura di mondo: per poter essere rappresentata la cosa dev’essere segno. «Ogni pratica di mondo è un disegno di mondo» ovvero «uno stato di cose disegna una situazione» [Sini (1994), pag. 27]) hanno lo stesso significato. Ovvero che c’è qualcosa di comune tra essi al di là della loro contingenza empirica. Wittgenstein direbbe: ciò che è in comune è l'immagine logica (immagine, in tedesco Bild, va intesa come Abbild: modello, forma) che però può essere solo esibita scrivendo, mostrata nel suo darsi, ma che non può essere detta, non ha un significato riproducibile, per dirla dovrei sempre utilizzare un'altra forma di raffigurazione, inoltrandomi in un gioco che rinvia all'infinito. L'autore austriaco nel Tractatus afferma, inoltre, che «l'immagine logica dei fatti è il pensiero». Karl Popper (1997) parla di un Mondo 3 (il Mondo 1 è quello delle cose fisiche, il Mondo 2 quello delle esperienze consce e inconsce) costituito dai prodotti tecnici e artistici della mente umana ma anche da oggetti "autonomi", non fisici, quali le teorie. A proposito di quest’ultime Popper dice: «A volte le teorie contengono conseguenze che nessuno ha ancora scoperto sino a un dato momento, ma che tuttavia erano già lì, in senso logico, e potevano essere scoperte piuttosto che inventate (mentre la teoria aveva dovuto essere inventata almeno in parte). In ogni caso, un contenuto di pensiero può essere lì, in attesa di essere scoperto». [Popper (1997), pagg. 35-36]. Fermiamoci e valutiamo il percorso fatto. Ciò di cui scriviamo è il pensiero, ma non nel senso che i nostri scritti sono pieni di riflessioni sull'attività mentale. Pensiero sta qui a significare l'attività da sempre presente nell'uomo di farsi immagini del mondo, che vengono iscritte in gestualità e prassi peculiari: il significato, il contenuto. E d'altra parte sia Wittgenstein che Peirce sarebbero disposti a ribaltare la frase di Nelson dicendo che il pensiero riflette la struttura di ciò in cui pensiamo, specificando che ciò in cui pensiamo sono i segni, i grammata, la scrittura, gli usi, le prassi. Lévy asserisce che: «Noi esseri umani non pensiamo mai soli né senza strumenti. Le istituzioni, le lingue, i sistemi di segni, le tecniche di comunicazione, di rappresentazione e di registrazione strutturano profondamente le nostre attività cognitive: in noi pensa un’intera società cosmopolita.» [Lévy (1995), pag. 87]. Ma per Popper abbiamo visto che una volta inventata una teoria esiste una struttura oggettiva che attende di essere scoperta. L’autore austriaco fa l’esempio della sequenza dei numeri naturali che mostra come un’invenzione linguistica della mente umana ha bisogno di una dimostrazione, nel caso particolare quella di Euclide, per scoprire un suo contenuto oggettivo: l’esistenza di una infinità di numeri primi. Siamo chiusi in un circolo: le tecnologie intellettuali sono prodotti del pensiero (della mente umana) che cercano di riprodurre la struttura del pensiero e quest’ultimo, pur essendo il prodotto di peculiari pratiche e tecnologie, sembra scoprire contenuti oggettivi. Per uscire dovremo rispondere alla domanda: che rapporti intrattengono il mondo e il pensiero? Ma in questo momento non abbiamo la presunzione di rispondervi. Facciamo invece il punto della situazione: siamo partiti dicendo che l’oggetto dell’ipertesto sono i programmi, ovvero i codici informatici, infatti quando compriamo un CD-ROM quello che ci vendono è il contenuto: la sequenza di caratteri alfanumerici. Ma questi non ci interessano in sé ma perché verranno interpretati dal computer che ce li mostrerà come oggetti (immagini digitali, suoni di sintesi) dotati di significato. Quindi è al significato che noi miriamo, con tutte le implicazioni che questo comporta, come abbiamo visto sopra. Eppure il fatto che il significato si dia mediante gli oggetti informatici non può essere indifferente. Quali sono le caratteristiche dell’oggetto informatico? Esso è immateriale, è un codice ma ha bisogno per produrre oggetti esperibili fisicamente di strumenti "pesanti" come i computer. Esempi sono la realtà virtuale, gli ambienti sintetici, il ciberspazio e Internet, ma anche l’augmented reality o l’arte generativa. In tutti questi campi si assiste o totalmente o in parte alla produzione di oggetti che, pur interagendo con noi, hanno la natura di codici, di linguaggi, che si possono modificare cambiandone la sintassi. Come il Verbo originario i linguaggi informatici hanno la capacità di creare esseri. Che tipo di essere è quello informatico, lo vedremo in seguito. Ma la produzione di un oggetto mantiene inalterato il soggetto che lo
produce? Oppure ci troviamo di fronte a quella che Simondon definisce una
"relazione transductiva"? Ovvero «una relazione che costituisce i
suoi termini, dove un termine non può precedere l’altro poiché essi non
esistono che nella relazione» [Derrida,
Stiegler (1996), pag. 183]? E se cosi è quale soggetto corrisponde
all’evento dell’oggetto informatico? Per rispondere dobbiamo prima
affrontare un’altra domanda: «Cosa cambia se l'ipertesto invece che su CD-ROM
è in rete?» Le reti informatiche permettono la trasmissione a distanza di dati digitali, utilizzano per lo più la rete telefonica esistente e grazie a questo possono raggiungere una grande capillarità(7). La rete dà quindi la possibilità di consultare milioni d'ipertesti che risiedono fisicamente su memorie poste a migliaia di chilometri, per questo Nicholas Negroponte in Essere digitali si sente autorizzato a parlare di mondo digitale in contrapposizione a quello degli atomi; dove sia la materia non ci interessa più, a noi interessa che arrivino i bit. La rete serve allora per non tenersi in casa migliaia di CD? Anche, ma la sua caratteristica principale è quella di rendere possibile una continua apertura degli ipertesti verso l'esterno, verso la lettura e la scrittura, verso la creazione di nuovi collegamenti. Poiché «l’utente di CD-ROM gode di un’assoluta libertà di navigazione, purché le sue scelte siano quelle prestabilite dal programma» [Maldonado (1997), pag. 133]. Questo è uno dei motivi per cui i CD-ROM sono soprattutto efficaci per trasmettere saperi con un nucleo fortemente strutturato: il CD-ROM è stato sviluppato sinora come opera autosufficiente e poco interattiva con la rete, concettualmente esso è stato visto come un sostituto di più rapido utilizzo dell’enciclopedia, del consulted book, ma sempre all’interno della stessa ottica illuministica di classificazione dei saperi. La rete invece non si limita alla riproduzione della mappa del sapere, l’informazione inserita in rete nonostante possa avere pretese di autoreferenzialità potrà sempre essere associata o chiosata dagli utenti della rete e inserita in innumerevoli percorsi dinamici e mutevoli. In questo senso la rete si apre a essere feconda anche in quei campi che necessitano di un’interpretazione dinamica e personale. A ogni modo, proprio l’esperienza della rete ipertestuale sembra suggerire che non si tratti di preferire Internet al CD-ROM o quest’ultimo al libro, l’esperienza multimediale non è quella che condensa in un unico medium tutti gli altri (ipermedia), ma quella che riesce a costruire una rete tra i vari media per esaltarne le proprietà di ognuno(8). Internet La peculiarità di Internet sembra essere non tanto l’utilizzo di diversi media (la Web-TV non si è ancora affermata per esempio) ma l’accesso non lineare all’informazione e alla comunicazione che esso consente. Rispetto alla comunicazione televisiva o radiofonica del tipo uno-molti e a quella telefonica di tipo uno-uno, la rete sembra consentire una comunicazione molti-molti. Analizziamo la non linearità dell’informazione. Dopo essere entrati nell'ambiente di Internet, per potervi spostare, sia che vogliate dare un'occhiata, sia che cerchiate qualcosa di particolare, dovete avere gli indirizzi. Esistono dei programmi, i cosiddetti motori di ricerca, che permettono di esplorare Internet rintracciando gli indirizzi collegabili a una o più parole-chiave. E qui nascono i problemi, perché i motori trovano migliaia di indirizzi ma come sapere anticipatamente dietro quali di essi si trovano i documenti che affrontano in maniera centrale e non di sfuggita l'argomento. Il fatto è che, tranne all’interno di singoli documenti, non c’è mai una mappa che si possa scrutare dall'alto, si hanno sempre più porte in cui entrare, come in un labirinto. Le mappe le costruiamo noi a posteriori trascrivendo i percorsi che abbiamo seguito. Ma nel mondo informatico che cartografiamo, quali oggetti? quali soggetti incontriamo? Il soggetto on line Il soggetto che incontriamo in rete è un soggetto privo di corpo che si può
presentare come scrittura, come voce, come immagine. Corpi digitali: scritti,
video, foto, suoni, ipertesti. L’Altro soggetto mi si presenta senza corpo
fisico con un corpo digitale e anch’io mi presento a lui in questa veste. Nel
caso della voce questo avviene anche per il telefono, il soggetto telefonico non
è mai annusabile, la sua presenza si limita alla miniaturizzazione della voce.
Ma già il soggetto letterario, come ben sapeva Platone, è privo di corpo. Una
parte del pensiero occidentale ha considerato il corpo come un possesso del
soggetto (dell’anima, dell’Io), se così fosse un soggetto senza corpo
sarebbe un soggetto più "puro". Viene perciò relegato in secondo piano il linguaggio gestuale del corpo; ma questo, si dirà, avviene anche con lo scambio epistolare o con il contatto telefonico. La questione è che ciò avviene alla velocità telefonica e non solo tra due soggetti. Abbiamo infatti scritto riguardo alla rete che si tratta di comunicazione molti - molti, ma è poi così? La comunicazione è veramente molti-molti? Analizziamo l’esperienza delle cosiddette comunità virtuali [sull’argomento vedi Rheingold (1993)] che spesso si formano attorno a dei gruppi di discussione (newsgroup) su specifici argomenti. I newsgroup possono essere interpretati come ipertesti se li analizziamo come l’intreccio rizomatico di soggetti virtuali attorno a un tema. In rete il soggetto è sempre problematico: «Il comunicatore è distaccato dall'oggetto della sua comunicazione. Cioè, tu vedi comparire una frase e questa frase contiene dei segnalatori di identità che possono essere falsi, che possono non corrispondere alla realtà del comunicatore. Per cui io in rete posso presentarmi come una donna o posso presentarmi come un afro-americano, posso presentarmi come un cinese. Ora, quando l'agente della comunicazione può mascherarsi, è chiaro che l'informazione, può diventare più indefinibile, imprecisa. Ma è anche vero il contrario: e cioè che il contesto, nel quale la comunicazione si svolge, può divenire un contesto più ricco, più ambiguo e dunque capace di aprire prospettive più ricche di quelle che si determinano nella comunicazione comune, faccia a faccia. Finalmente la smettiamo di prenderci sul serio, finalmente la smettiamo di credere che le nostre parole sono pietre, che la storia è fatta di parole, che le parole son fatte di storia.» [Berardi (1996)]. Tomàs Maldonado nel suo Critica della ragione informatica individua nella chiacchiera informatica un pericolo per la società democratica. La questione è come viene modificata l’identità dalla frequentazione della rete, dobbiamo parlare di soggetti ipertestuali? L’identità di ognuno (l’Io) va vista «come una scena in cui s’interpretano diversi ruoli in un complesso gioco delle parti» [Maldonado 1997, pag. 56]. Berardi diceva che posso presentarmi come donna o cinese. Per Maldonado la comunicazione in rete è rischiosa perché può produrre dei soggetti illusori e parziali che non portano nella discussione tutte le loro contraddizioni: soggetti che giocano ma non si mettono in gioco. Perciò la democrazia, in quanto agire razionale e deliberativo, è messa in discussione. Il processo di formazione della verità pubblica è più farraginoso perché maggiori sono le informazioni da esaminare e sempre più piccole sono le comunità. In rete rispondere alla domanda «Chi parla?» non è più essenziale, l’informazione non ha bisogno di certificati di paternità. Per Berardi questo non è necessariamente negativo: «La politica, tradizionalmente, nelle epoche passate, durante la modernità, era un esercizio di decisione, di scelta, su alternative che si presentavano con chiarezza. Oggi noi ci troviamo nella situazione di non potere più decidere, perché non siamo più in grado di valutare in successione, criticamente, l'informazione che raggiunge il nostro organismo individuale e collettivo. Dunque: fine della riflessione, fine della decidibilità, fine della politica. Questa è probabilmente la direzione nella quale andiamo. Dobbiamo abituarci all'idea che le scelte che noi stiamo compiendo e compiremo, non dipendono più né dalla critica, né dalla decisione, né dalla politica. Da cosa dipendano ancora non lo sappiamo. Il problema è che l'ozio non è soltanto una necessità per il lavoro intellettuale, per la conoscenza, ma è probabilmente la forza produttiva principale, la forza creativa principale per la conoscenza. Ora, quando la conoscenza viene sottoposta alle leggi, ai ritmi, alle necessità della macchina capitalistica, la conoscenza finisce di essere quello che abbiamo sempre saputo, quello che essa è per la sua stessa natura, e comincia ad essere reazione ad uno stimolo che proviene dall'esterno, comincia ad essere ripetizione, una sorta di attività eterodeterminata. E che proprio coloro che sono stati all'avanguardia nella ricerca informatica, telematica, nella ricerca di rete, oggi mettono in guardia contro il pericolo di identificare creatività e coscienza con la elettrocuzione permanente, con questa sorta di collegamento costante, di messa in rete dei cervelli continuativa. Ecco, interrompiamo la connessione, se è possibile. Avremo tutto da guadagnarci.» [Berardi (1996)] Sembra allora che la comunicazione avvenga tra molti-molti ma questi molti sono soggetti differenti da quelli dell’agorà, soggetti la cui identità è sempre una singolare prospettiva, in cui puoi vedere solo l’angolazione che l’altro decide, e in cui i soggetti decidono di scambiarsi informazioni senza assumersene necessariamente la paternità. Ma questo nuovo soggetto, soggetto "ico-ironico", soggetto a un ruolo, che ha ancora bisogno del corpo ma il cui corpo non incide più sulla determinazione della sua identità, quanto è "nuovo"? in quale dialettica è iscritto con il suo oggetto? Teniamo da parte queste domande per quando affronteremo il concetto di esperienza e di attività cognitiva. Riepilogo Praticando l'ipertesto abbiamo scoperto che esso è una struttura articolata associabile a una rete. Una rete è funzionalmente composta da due entità: i nodi e i collegamenti. Nell'ipertesto i nodi sono rappresentati da ciò che viene prodotto (detto, mostrato): dai significati, dalle identità. I collegamenti sono invece parole o icone che fungono da interfacce tra nodi, esse rinviano ai significati, operano il passaggio, il loro valore è nello stare per. Esse non dicono, indicano. Sono dunque confermate le anticipazioni iniziali: l'ipertesto è una rete
d'interfacce e di significati. Ciò consente: Riassumendo: Alla nostra ricerca per il momento può bastare questa fenomenologia, vediamo ora di rispondere alla domanda sull'evento dell'ipertesto: quale intreccio di pratiche precedenti ha portato alla sua comparsa? e da cosa deriva la sua originalità? Le risposte non potranno derivare che da una genealogia dell'ipertesto.
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